Sibilla Aleramo.it
un sito a cura di Alvise Manni e Sergio Fucchi
pubblicato il 13 gennaio 2010
A 100 anni da "Una donna" | Rassegna stampa |
Ricciotti Fucchi
da "Il caffè Annibal Caro ovvero il bar Maretto"
(Estratto dal n. 3 di “Civitanova Immagini e storie” – Civitanova Marche, ottobre 1992)
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Il "signorile" ambiente provocò naturalmente un forte ricambio di clientela, ed il caffè Annibal Caro diventò il ritrovo privilegiato della gente abbiente, compresi però anche quegli operai specializzati ed artigiani che si potevano permettere il cambio del vestito e la consumazione al tavolo. Ne dà conferma una gustosa cronachetta pubblicata nel luglio del 1892 da "La Sentinella di Osimo" e firmata da Rina Faccio (Sibilla Aleramo) con lo pseudonimo di Reseda:
"...Alle 6,30 pom. ora dell'estrazione della tombola di L. 500, la vasta piazza Scalo era popolatissima: al caffè Annibal Caro, ressa di signore e signori (venuti anche) con carrozze, carrozzelle e veicoli d'ogni genere dai paesi vicini".
Fra i clienti di maggior spicco c'era infatti l'ing. Faccio, direttore della fabbrica di bottiglie, che per primo dette l'esempio di una frequentazione regolare - cosa per l'ambiente del tempo piuttosto biasimevole - insieme alla moglie ed alla figlia maggiore.
Divennero frequentatori abituali un po' tutti gli iscritti alla Società Operaia, in particolare gli esponenti del Partito Repubblicano, nelle cui fila militava lo stesso Pandò, capeggiati dal maestro Gaggegi e da Buttero Butteri che negli anni '20, proprio davanti al Caffè, furono spesso protagonisti di violenti scontri con le teste calde dello squadrismo locale.
Teresa Labriola
Figlia di Antonio, nacque a Napoli nel 1873, studiò legge e si laureò giovanissima. Nel 1901 conseguì la libera docenza in Filosofia del diritto all'Università di Roma. Ammessa, dopo molte polemiche e un dibattito parlamentare, all'Albo degli avvocati, sarà la prima avvocatessa d'Italia. "Femminista approdata al fascismo" (Michela De Giorgio), morì nel 1941 a Roma.
Opere
Bibliografia
A cura di Silvestrini Vincenza
Il vero nome di Sibilla Aleramo
Molti di voi saranno sorpresi quanto lo siamo stati noi quando abbiamo appreso per la prima volta quale fosse il vero nome di Sibilla Aleramo: Marta Felicina da cui il più facile e familiare «Rina»: è stato il nostro Coordinatore, il dott. Alvise Manni, a notare questo particolare, sicuramente ignoto ai più.
Da tempo si conosceva il vero nome di battesimo di «Rina» in quanto riportato nel monumentale Archivio Sibilla Aleramo in possesso della Fondazione Istituto Gramsci onlus dalla cui "Guida alla consultazione", curata da Marina Zancan e Cristiana Pipitone (maggio 2006), abbiamo tratto questa «scoperta».
Pierluigi Cavalieri
da "La fabbrica di bottiglie di Portocivitanova"
(Estratto dal n. 1 di “Civitanova Immagini e storie” – Civitanova Marche, giugno 1987)
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Il “direttore di ferro”
Ex insegnante di chimica, l'ingegner Ambrogio Faccio (1851-1927) fu chiamato a dirigere la vetreria civitanovese all'età di trentasette anni. Nei dodici anni della sua direzione seppe portare la fabbrica di bottiglie ad un notevole sviluppo, testimoniato dal sensibile aumento del numero degli operai. Questi ultimi, da 77, quanti erano nel 1889, arrivarono ad essere 215 nel 1897, per poi subire delle lievi flessioni negli anni successivi, probabilmente dovute agli aspri conflitti che caratterizzano l'ultimo periodo della sua direzione.
L'atteggiamento del direttore nei confronti degli operai è ben reso da una frase contenuta nel romanzo della figlia Sibilla Aleramo:
"Non poteva ammettere un controllo, una volontà emanante dai suoi subalterni".
Tuttavia va osservato che questo rigore era tipico dei dirigenti industriali del tempo. Gli storici che hanno studiato le condizioni di vita nelle fabbriche italiane negli ultimi decenni dell'Ottocento hanno dimostrato che duri regolamenti di fabbrica, multe, ritenute, decurtazioni dei salari, licenziamenti improvvisi e arbitri di ogni genere erano assolutamente normali nel nostro Paese. Scrive Raffaele Romanelli:
"I regolamenti severissimi, le sanzioni disciplinari, i rituali di comportamento imposti nelle fabbriche dell'epoca sembravano concepiti per trasformare abitudini di vita, atteggiamenti e l'intera personalità del contadino appena inurbato - che si riteneva per questa sua natura tardo ad apprendere, tendenzialmente incivile e amorale - educandolo ai nuovi valori di una gerarchia meccanica in cui l'etica del lavoro era rigorosamente misurata in termini di sfruttamento umano".
Da diversi passi di Una donna traspare il disprezzo che il Faccio nutriva nei confronti dei suoi operai, i quali essendo con tutta probabilità contadini inurbati o pescatori, dovevano pure essere, ai suoi occhi, lenti ad apprendere e incivili. Di convinzioni laiche, egli non poteva criticarne l' amoralità (nel senso cattolico del termine): ne criticava allora l' ipocrisia:
"Il babbo aveva riso di questa antipatia diffusa [quella degli abitanti di Porto Civitanova nei suoi riguardi, n.d.a.]. Poi, piano piano, aggiungendovisi la conoscenza più esatta dei lavoratori del luogo, un rancore amaro principiò ad invaderlo. Sopra tutto l'ipocrisia dominante l'irritava".
E, in un'altra pagina:
"Ripensai [...] ad alcune considerazioni che avevo ascoltate più volte da mio padre. Nel paese regnava una grande ipocrisia. In realtà i genitori, sia fra i borghesi, sia fra gli operai, venivano sfruttati e maltrattati dai figli, tranquillamente!"
Ambrogio Faccio non si inimicò soltanto la popolazione del Porto, ma anche le autorità comunali. Un primo attrito col sindaco Tebaldi si ebbe già nel dicembre del 1889, quando avendo licenziato un operaio piemontese, tale Edoardo Camperi, a causa di una rissa, il Faccio scrisse al sindaco sollecitandolo sia a espellere l'operaio dal territorio comunale, che a dare disposizioni ai carabinieri del Porto affinchè sorvegliassero accuratamente il personale della vetreria, segno evidente che non era stato il solo Camperi ad avergli creato problemi.
Celso Tebaldi risponde con molta cautela:
"Non potrei provvedere per una sorveglianza speciale verso chi non ha commesso reati che dettino tal misura [...]. Per allontanare poi l'operaio è bene che l'autorità municipale non crei precedenti di tal natura. Infatti - conclude il Sindaco - il Comune avrebbe in questo caso dovuto accollarsi le spese per il rimpatrio in Piemonte dell'operaio e la cosa si sarebbe dovuta ripetere in futuro con altri licenziati..."
Nel 1893 si verificò un espisodio ben più grave. Avendo il Faccio inflitto una delle sue frequenti multe all'operaio diciannovenne Teofilo Gracciotti, quest'ultimo si rifiutò di pagarla, ritenendola ingiusta. Ne scaturì un violento diverbio tra i due, nel corso del quale vennero anche alle mani. Il direttore sporse allora querela contro il Gracciotti e lo licenziò insieme ai suoi due fratelli, Antonio (18 anni) e Battista (26 anni). Trovatisi senza lavoro e senza mezzi di sussistenza i tre, che erano piemontesi, non potevano affrontare le spese per il viaggio di ritorno a Torino, anche perchè avrebbero dovuto essere accompagnati dagli altri componenti della loro numerosa famiglia: padre, madre e tre fratelli sotto i quindici anni. Il viaggio in treno sarebbe costato loro 30 lire a persona, per un totale di 240 lire. Il sindaco Carlo Sabatucci invitò il Faccio a pagare le spese di viaggio della famiglia Gracciotti, ma il direttore acconsentì soltanto a pagare una "regalia" di 50 lire, nonostante gli si fosse fatto comprendere che tale somma era assolutamente inadeguata a coprire il costo del viaggio dell'intera famiglia.
Il comportamento del Faccio esasperò gli animi e il 23 novembre il padre dei fratelli Gracciotti lo affrontò in maniera tale che il direttore estrasse un rivoltella per difendersi. Nessun colpo fu sparato, ma la cosa non finì lì. Ambedue si recarono separatamente alla caserma dei carabinieri, dove il Faccio puntò nuovamente la pistola contro il Gracciotti. Mentre una folla di civitanovesi ostili al direttore si accalcava minacciosa davanti alla caserma, i carabinieri decisero, per far calmare le acque, di trattenerli entrambi per qualche ora. Ritornato in fabbrica, il direttore ricevette un nuovo pressante invito da parte del sindaco a pagare le spese di viaggio ai Gracciotti, ma si rifiutò ancora una volta di farlo. Intanto la solidarietà dei compagni di lavoro dei Gracciotti si espresse attraverso uno stampato - nel quale venivano rivolte tra l'altro pesanti accuse personali di immoralità ad Ambrogio Faccio - che fu sottoscritto da moltissimi operai.
Avvertito dal marchese Ciccolini, intervenne a questo punto il prefetto che, con un telegramma del 24 novembre, avvertì il sindaco che non aveva il potere di intimare al direttore di pagare le spese di viaggio agli operai licenziati. Fu perciò il Comune a sostenere l'onere del rimpatrio della famiglia Gracciotti. Il direttore Faccio si limitò a far avere loro, tramite il sindaco, il salario delle ultime due settimane di servizio.
Nel suo rapporto al prefetto sulla vicenda, il sindaco Sabatucci sottolinea:
"l'irascibilità e la nervosità dell'ingegner Faccio, che per i suoi modi non si fa certo amare e licenzia troppo spesso e per lievi colpe gli operai non curando di lasciarli sul lastrico a campagna cominciata e senza che questi siano in grado di provvedersi altrove di lavoro".
Al di là del contrasto personale tra il Faccio e i Gracciotti, la solidarietà espressa dagli operai della vetreria ai loro compagni licenziati conferisce a questo episodio un carattere di conflittualità sindacale, sia pure ancora allo stato embrionale.
D'altronde vi era chi stava già attivamente propagandando il verbo socialista e sostenendo la necessità della lotta di classe tra gli operai della vetreria. Proprio in quell'anno era stata fondata a Porto Civitanova la locale sezione del Psi, una delle prime della regione. Nella vicina Macerata inizierà le pubblicazioni, nel 1895, il periodico di ispirazione democratica (più tardi socialista) La Provincia Maceratese, che seguirà sempre con attenzione le vicende della fabbrica di bottiglie di Porto Civitanova, anche perché uno dei suoi fondatori e redattori, l'avvocato Michele Alfredo Capriotti, era ci-vitanovese e conosceva tutti i retroscena di quegli avvenimenti.
Nel 1895 lo scontro tra il direttore e gli operai assume i contorni di una vera e propria vertenza sindacale. Nel dicembre di quell'anno gli operai richiedono un nuovo contratto di lavoro, contestano il sistema delle multe e rivendicano il diritto di essere impiegati di volta in volta in fasi diverse della lavorazione. In risposta alle richieste operaie Ambrogio Faccio decide la serrata e il 23 dicembre spegne il forno fusorio licenziando tutti gli operai. Il 16 gennaio 1896 la fabbrica è ancora chiusa30. Riaprirà poi per intervento del sindaco e del prefetto di Macerata.
Ma il rapporto tra il direttore e gli operai avrebbe continuato a deteriorarsi. Divenuto affittuario della fabbrica, il Faccio difende ora doppiamente i propri interessi. Una sua lettera datata 19 aprile 1897 e indirizzata al sindaco di Civitanova costituisce una testimonianza molto significativa dell'asprezza nei rapporti capitale-lavoro a Porto Civitanova negli ultimi anni dell'Ottocento. La riportiamo integralmente:
"Mi rivolgo a Lei quale capo della Pubblica Sicurezza di questo paese onde voglia trovar modo di porre un po' di freno fra la classe operaia di questa vetreria che bene spesso si abbandona a ingiustificati eccessi con cui si vorrebbero creare precedenti poco seri e civili. Ciò nell'interesse anche del paese e ad evitare guai più seri e maggiori complicazioni cui la condotta scorretta degli operai concorrerebbe a far sorgere.
Le anormalità e irregolarità gravi ch'io lamento si riferiscono principalmente al fatto che gli operai, presentandosi al cancello della vetreria con animo di quistionare, fanno pressioni, vomitano ingiurie, minaccie, bassezze di tutte specie gridando e schiamazzando, quasi che la vetreria fosse una bettola ove essi sogliano gozzovigliare. Potrei bensì raccogliere tutti questi insulti e farne oggetto di querela, ma come si fa a perdersi con gente di tal natura e crearsi ad ogni momento tanti disturbi e imbarazzi?
Comprenderà benissimo la S.V. come occorra a me la massima tranquillità per accudire serenamente alla mia impresa e quindi l'appoggio immediato e costante delle Autorità tutte. Che diversamente, quando vedessi persistente l'indisciplinatezza e il malvolere nella classe operaia di qui, mi vedrà costretto a ricorrere, come già feci, alla maestranza forestiera, ciò che evidentemente tornerebbe di grave danno ai suoi amministrati.
Io confido che la S.V. farà di tutto per quanto è in Lei e ringraziandola La ossequio distintamente".